
Alle origini del cavallo italiano: tra preistoria e civiltà antiche

Un viaggio nel tempo sulle orme degli antichi destrieri della Penisola
Il territorio italiano, culla di civiltà millenarie e paesaggi unici, ha da sempre accolto una delle più affascinanti e nobili creature: il cavallo. Ma ciò che molti non sanno è che, molto prima che diventasse simbolo di potere e prestigio per imperatori e condottieri, il cavallo italiano aveva già scritto pagine importanti della storia naturale.
Dalle pianure selvagge alla scomparsa
L’Italia, durante il Paleolitico, era abitata da diverse specie di grandi erbivori, tra cui un equide poco noto ma estremamente interessante: l’Equus hydruntinus. Questo piccolo cavallo selvatico, simile a un asino, popolava l’Europa meridionale, comprese le pianure del nord e del sud della Penisola. Tuttavia, l’arrivo dell’Homo sapiens segnò per lui l’inizio della fine. I cacciatori del Paleolitico superiore, ancora ignari dell’agricoltura e dipendenti dalla caccia per sopravvivere, portarono all’estinzione numerose specie, tra cui anche gli equini selvatici italiani.
Il lungo silenzio e la lenta rinascita
Dopo millenni di assenza, i cavalli ricomparvero in Italia solo grazie all’uomo, che, nel Neolitico e nel successivo passaggio all’età del bronzo, iniziò ad addomesticarli e ad utilizzarli per trasporti, guerra e agricoltura. I primi reperti equini tornano alla luce nel Nord Italia, in particolare nella cultura di Polada (Lago di Garda, 1550-1450 a.C.) e in quella delle terramare emiliane.
Si trattava però di esemplari ancora piuttosto rozzi: piccoli, con corporature tozze, spesso non utilizzati per la cavalcatura ma come animali da soma. Solo verso il IX secolo a.C., con la cultura villanoviana, inizia una vera e propria cultura equestre, che si sviluppa poi magnificamente tra Etruschi, Piceni, Volsci e altri popoli dell’Italia preromana.
Gli Etruschi e il culto del cavallo
Se i cavalli italiani ebbero un primo grande impulso, lo si deve senz’altro agli Etruschi, raffinatissimi allevatori ed eccellenti cavalieri. A loro si deve l’introduzione del cocchio da guerra, proveniente dall’Asia, e una profonda trasformazione della cultura equina italiana. Nei loro riti funerari, come documentano la Tomba del Duce a Vetulonia e i sepolcri di Populonia e Cerveteri, il cavallo assumeva un ruolo simbolico altissimo: veniva spesso sepolto con il suo cocchio, a indicare il prestigio del defunto.
Dagli studi archeozoologici si evince che esistessero due tipologie di cavalli etruschi: una più robusta e meno pregiata, destinata al lavoro, e una più elegante, probabilmente di origine asiatica, impiegata in cerimonie e in guerra.
L’evoluzione delle razze e l’arrivo dei popoli stranieri
Già nel VI secolo a.C. l’Italia era un mosaico di influssi culturali: i Galli Celti introdussero cavalli da tiro pesante; i Greci, stanziatisi nella Magna Grecia, portarono razze orientali agili e veloci; i Cartaginesi, infine, portarono sangue africano in Sicilia e Sardegna. Da questi incroci nasce una diversificazione genetica che porrà le basi per alcune delle future razze più rinomate del Bel Paese.
In particolare, la Campania si distinse per l’eleganza dei suoi esemplari. Virgilio, nelle sue opere, loda le candide puledre campane, spesso destinate ai trionfi romani, a simboleggiare la vittoria e la gloria dell’Impero.
Verso la romanità
Alla vigilia dell’ascesa di Roma, l’Italia equina non presentava una razza unica e omogenea, ma un insieme variegato di esemplari frutto di selezione spontanea, influenze geografiche e scambi culturali. Eppure, proprio in questa varietà si cela la forza del cavallo italiano: una capacità innata di adattarsi, evolversi e conquistare.
Nel prossimo articolo, vedremo come l’Impero Romano, pur non essendo “nato a cavallo”, seppe sfruttare e potenziare questo patrimonio, integrandolo con quello delle popolazioni sottomesse. Un viaggio affascinante tra legioni, conquiste e grandi casate medievali ci attende.
Continua a leggere nella seconda parte: “Il cavallo in Italia tra Roma, Medioevo e Rinascimento”
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